“Il dolore è come un gas: solo una gioia immensa può espandersi come un minimo dolore. La radice della gioia è nel dolore”. Questa dichiarazione di Plinio Mesciulam compare in una delle opere in mostra appartenenti alla sua serie intitolata “Le firme dei maestri”. Ma qual è il dolore a cui fa riferimento Mesciulam? Si tratta di un dolore cosmico che ci appartiene come un marchio, di cui ci nutriamo e da cui dovremmo riuscire a decantare quel necessario alimento esistenziale che possiamo chiamare gioia, non felicità. La gioia è qualcosa di effimero da coltivare e da estrarre dal dolore; la felicità è un sentimento più duraturo che difficilmente ci appartiene. Mesciulam ci offre un elemento di speranza almeno temporanea: “In tanto mio lavoro, anche passato, mi sono occupato di un dito che indica un segno”. Da queste composizioni fuoriesce infatti un’asticella che punta il mistero dello spazio: non a caso in un’immagine emerge e si ripete il simbolo dell’infinito che galleggia all’interno del racconto. L’infinito nel finito, l’infinito da cui trarre il tempo che ci compete. In un’altra situazione compare quella coppia intrecciata a forma di “x” che costituisce il motore della sua arte successiva che cerca di rendere umanamente sopportabile il connubio gioia/dolore. Questi dipinti paiono anche misteriose scatole in cui vengono depositati frammenti di vita, di consuetudine. Ricordano quei cassetti che i nostri progenitori lasciavano decantare nei vecchi comò in qualche soffitta e poi recuperavano per ricucire, attraverso il loro contenuto, il senso della personale storia. Nella circostanza Mesciulam li propone per sé e per noi come esercizio di memoria, come legame con un passato da riacquisire e da ricucire per fornire un senso al futuro. Non possiedono la sacralità della reliquia ma esibiscono un interessante, necessario legame tra il prima e il dopo. Infatti tali dipinti non distillano un racconto definito e definitivo ma lasciano aperti i transiti del pensiero che li ha ripescati dall’inconscio e offre a chi li osserva preziosi veicoli di “riconoscenza” ovvero di recupero cognitivo di se stessi. “Insomma, le firme dei maestri segno-precario archetipo, portano con sé proprio l’enigma del rapporto tra l’impietosa distruttività del tempo impegnato nei traguardi dell’assenza e la pur effimera ospitalità dello spazio ( … ) Sono quindi spezzoni, frammenti di quelle firme (quasi una scrittura automatica ) che l’ingrandimento fotografico sgrana, riscatta e sublima in ‘reperto’”, come ha evidenziato  Pietro Bellasi in un suo saggio dedicato all’artista genovese ( 1 ). Costituiscono la traccia delle cadute riconducibili alle trappole seminate lungo i tortuosi percorsi dell’esistenza a cui seguono auspicabili e rinnovabili resurrezioni. Il  percorso creativo di Mesciulam ha quindi continuato a svolgersi sempre in bilico tra precipizio e ascensione promuovendo ( o addirittura provocando ) il bisticcio interiore e ponendo in critica discussione il mondo dell’arte che privilegiava altri obiettivi dove era il mercato a dettare o a decidere le vie del successo. Così gioia e dolore hanno trovato il loro altalenante elemento da condurre sulle tele e sui legni che anche nell’esplosione atipica delle misure debordavano sovente dalla logica mercantile. “Le firme dei maestri” torneranno a riproporre l’autenticità e l’attualità del loro messaggio nelle più recenti “Tavole autoindicate” e nelle opere in mostra rielaborate tra il 2006 e il 2009 prendendo spunto da lavori di alcuni decenni addietro.

“Profumo di rosa”, che anche dal punto di vista cronologico conclude l’attuale rassegna, sembra radunare tutte le istanze chiamate in causa finora. Con un importante distinguo innanzitutto descrittivo: il rosato e profumato modulo della parte superiore della composizione disegna il suo percorso nel vuoto dal momento che non accoglie in sé i reperti o i suggerimenti gestuali delle prove precedenti. Una chiave interessante di lettura è conservata in una sorta di piedistallo: qui compare, in penombra, un nuovo elemento d’indagine che ha inaugurato l’ultima stagione di Mesciulam intento a sondare le domande e le angosce di sempre. Si tratta della “Lacrima di Dio” che cola dall’alto, scende su di noi e si rende partecipe delle nostre sofferenze, delle nostre impotenze.
E il cammino di esplorazione, di espiazione e di conoscenza continua…

Luciano Caprile

 

NOTE

  • Pietro Bellasi, “Le firme dei maestri. Il mito ostentato e l’epica del segno nell’opera recente di Plinio Mesciulam” in Plinio Mesciulam, “Le firme dei maestri ( 1974 ) – 2006-2008”, Edizioni Gabriele Mazzotta, Milano, 2008 p. 9-10
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